Fatti che non volevate sapere ma ve li dico lo stesso

Questione di spazi.

Io vivo nel caos. Se mi guardo intorno questa casa riporta esattamente la condizione che sento nella mia testa: una specie di esplosione. Ci sono mille frammenti intorno e io provo, giuro che ci provo a rimettere ordine, a trovare lo spazio giusto per tutto ma per pigrizia, per angoscia, per malamore, finisco per lasciare tutto così com’è.

Finisco per lasciare che il caos si propaghi silenziosamente, esclusi i momenti in cui mi lancio in bestemmie dovute all’incontro del mio povero minolo con questo disordine, o al fatto che non trovo mai niente subito, che devo cercare per ore.

Prima non era così, prima non ero così. Avevo il mio spazio, uno solo, una sola stanza. Lo curavo come si fa con le piantine aromatiche che compriamo tutti almeno una volta nella vita sperando che diventino la nostra selva personale. Oggi le mie piante aromatiche muoiono dopo una settimana per il solo fatto che ne dimentico l’esistenza.

Prima era più facile: forse perché avevo qualcuno che mi rimbrottava se tutto andava a puttane, se i libri si spargevano sulla scrivania, sul letto, sul comodino.

Oggi tocca a me il controllo qualità, ce la devo fare da sola. Lo spazio è mio e me lo gestisco io. Non si tratta di averne poco, si tratta di imparare a farlo proprio.

Qualche tempo fa ho letto Il magico potere del riordino. Ho comprato quel libro sperando di sentire la voce di Marie Kondo, in un giapponese misto al romanesco, urlarmi: Cazzo fai? Ma che cazzo te ne fai di tutti ‘sti scontrini? Cazzo lavori per la Guardia di Finanza? Butta tutto, tutto, TUTTOOOOOO.

Ci ho provato a buttare tutto. Ho buttato parecchio e anche senza rimpianti. Mi sono sentita più leggera, più padrona delle cose.

Dopo pochissimo gli oggetti sono tornati alla carica. Il portafogli era di nuovo invaso dagli scontrini, le agende si sono moltiplicate, le matite coatte catarifrangenti mi indicavano con le loro mine appuntite e lo so cosa volevano dire, volevano dire LOSER, guarda qua, è di nuovo un casino, non sei capace di prenderti cura di te stessa.

Mi rendo conto sempre di più di avere bisogno di spazio, di uno spazio mio. Uno spazio che non sia occupato dai vestiti, dalle scarpe, dalle creme. Uno spazio per il mio lavoro.

Lavoro nello stesso spazio che usiamo per cenare la sera. Lavoro nello stesso spazio in cui ospitiamo gli amici che vengono a trovarci. Lavoro qui, dove posso vedere i fornelli, il divano, le riviste, il giradischi. Lavoro qui perché la finestra è grande e c’è una bella luce ma mi siedo di spalle e l’effetto si vanifica, perché se guardo fuori mi distraggo. La sera, quando ho finito, sono troppo stanca e troppo pigra per spostare i quaderni, le penne, i post it, (spostarli dove poi? qual è il mio spazio?) e finiamo per consumare i pasti accanto a pile di roba che si tengono su per chissà quale miracolo della fisica.

Il coworking? Sì, ok ma adesso non me lo posso permettere. Lavorare al bar dove c’è la connessione? No, passerei il tempo a guardare e giudicare le sopracciglia degli astanti, meglio evitare. Allora mi sono detta: ehi, la stanza degli ospiti, ehi la cameretta dei tuoi futuri figli dai capelli minipony naturali, ehi quello spazio si può usare.

Sì, si potrebbe usare se non fosse quella che in gergo tecnico noi di giù chiamiamo “la stanza della vergogna”. Ci trovi di tutto: dai panni ancora da stirare alle vecchie lettere, alle foto dell’infanzia, alle buste di carta che poi chissà perché conservo tutte queste buste di carta. Mi sono detta: provaci, comincia a svuotare, tira via quello che non serve, fai una cernita, quante cose sono qui che hai dimenticato e non usi mai e se non le usi c’è un motivo, non ti servono, non ne senti l’esigenza, non ti cambiano l’esistenza.

Ho svuotato tutto, velocemente. Non ho guardato bene quegli oggetti, li ho infilati in una busta, sono solo stata attenta a suddividerli per genere, carta, plastica che poi chi lo sente il mio fidanzato ambientalista. E adesso sono qui, seduta per terra, su un pavimento brutto (signora ma te rendi conto di quanto è brutto?) che scrivo e sbircio sul sito di Ikea, che forse mi servono delle mensole e forse anche un divano letto nuovo, che questo può essere il mio spazio, il mio ufficio, il contributo materiale a quello che voglio diventare, del caos che piano piano si trasforma in disciplina, abitudine che sembra una cosa orribile ma che significa diventare grandi.

Incredibile che una mensola possa significare così tante cose.

[Ho scritto questo post dopo aver letto la newsletter di Ivan Rachieli. Secondo me dovreste iscrivervi.]

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3 pensieri riguardo “Questione di spazi.

  1. sono come te. il caos regna sovrano, accumulo scontrini, biglietti, bigliettini, ricevute, tutto ciò che significa un ricordo. E ogni tanto vorrei che venisse qualcuno a spronarmi a liberarmi delle cose inutili che tanto rimanere ancorati ai ricordi non serve a nulla. e come per tutte le cose sono un asso nella teoria, quello che mi fotte è la pratica. e non ho nemmeno la scusa di dover trovare uno spazio mio a impormi ordine e disciplina.

    p.s. compra anche un bel tappeto.

    1. Su quanto sono brava nella teoria e scarsa nella pratica potrei scriverci un libro. Il tappeto è una buonissima idea! Magari così nascondo quel pavimento urendo. Ma pure il prato finto mi sembra fico 😀 Forse troppo? 😀

Dai, dicci un fatto pure tu! :)